INTOLLERANZA AL LATTOSIO

L’intolleranza al lattosio è abbastanza diffusa nella popolazione, precisamente nell’Italia meridionale i soggetti che presentano tale difetto sono circa il 70%, nell’Italia settentrionale intorno al 50%, mentre l’incidenza percentuale nell’Europa centrale si aggira attorno al 30%. E’ causata dalla carenza di un enzima, la lattasi, e per questo il soggetto non riesce a digerire il lattosio, uno zucchero che rappresenta la quasi totalità dei carboidrati presenti nel latte (98% circa). La lattasi ha il compito di scindere il lattosio in zuccheri più semplici (glucosio e galattosio) permettendone il successivo assorbimento a livello gastrointestinale. Se manca l’enzima, il lattosio non può essere assorbito, resta nell’intestino, alimenta i batteri fermentativi (disbiosi intestinale), e causa una serie di sintomi come diarrea, stipsi ostinata, gonfiore addominale, reflusso GE, dolore addominale, ma anche stanchezza, cefalea o disturbi del sonno.

Non è detto che tutti i soggetti carenti di lattasi presentino una sintomatologia rilevante a livello clinico; quando però ciò succede il soggetto viene definito clinicamente come intollerante al lattosio. Nella maggior parte dei soggetti, la presenza dell’enzima inizia a diminuire a partire dall’età di due anni.

Il test più comunemente utilizzato per la diagnosi di intolleranza al lattosio è il Breath Test (BTH) che comporta un grande impegno temporale da parte del paziente, con manifestazioni importanti dopo l’ingestione del lattosio ed una preparazione adeguata nei giorni precedenti il test medesimo. Nonostante questo, alcune patologie concomitanti, comportamenti non adeguati precedenti il test o l’assunzione di alcuni farmaci, possono portare a risultati falsi positivi o negativi.

Negli ultimi anni è possibile fare diagnosi di intolleranza al lattosio mediante il test genetico che ha l’obiettivo di evidenziare anche condizioni patologiche che non presentano la tipica sintomatologia o di contribuire ad identificare la causa del sintomo manifestato. La diagnosi precoce è importantissima per prevenire la progressione dell’intolleranza al lattosio, clinicamente silente verso gravi patologie croniche.
Alternativamente, quando il sintomo è presente, il test del DNA conferma o chiarisce diagnosi dubbie, permettendo così di calibrare lo stile alimentare per una cura più adeguata, quando è possibile, e per una risoluzione del sintomo.
Sta emergendo sempre più, come alla base delle intolleranze alimentari, ci sia una significativa componente genetica. La nutrigenetica (genetica nutrizionale, un termine introdotto da Brennan nel 1975 – Nutrigenetics: New Concepts for Relieving Hypoglycemia, New York: M Evans Inc) si propone di individuare specifiche varianti geniche associate a differenti risposte metaboliche, causate dall’introduzione di determinati alimenti. 
Capire come queste differenze individuali siano geneticamente definite ha costituito uno dei principali obiettivi dei genetisti negli ultimi anni. Le informazioni acquisite con gli screening genetici su larga scala, definiti GWAS (Genome-Wide Association Studies), resi possibili dai moderni sistemi di analisi del DNA ad alta processività, hanno evidenziato che la presenza di particolari varianti geniche definite SNPs (Single Nucleotide Polymorphisms) erano associate alla predisposizione a diverse malattie abbastanza diffuse nella popolazione quali l’obesità, il diabete, l’ipercolesterolemia, patologie dell’apparato cardio-respiratorio, del sistema nervoso ed immunitario e addirittura alcune forme di cancro. 
Tra le patologie dove è stata stabilita la correlazione tra variante genica e malattia, esistono esempi di disfunzioni enzimatiche che causano pericolose malattie metaboliche come la fenilchetonuria o importanti intolleranze alimentari quali l’intolleranza al lattosio e la celiachia, molto diffuse nella nostra popolazione, associate a mutazioni o a varianti del DNA che ne permettono una diagnosi precoce.

Sono stati individuati diversi polimorfismi genetici associati alla persistenza dell’enzima lattasi dopo i due anni di età, di cui uno, il polimorfismo -13910 C>T, è funzionale alla produzione enzimatica e chi possiede questa variante mantiene attiva l’espressione del gene della lattasi, riuscendo ad assimilare il lattosio anche in età adulta.
Quindi il test genetico finalizzato alla presenza della variante -13910 C>T nel gene della lattasi deve essere considerato un test di esclusione, utile cioè ad escludere il coinvolgimento della componente genetica, legata al gene che esprime l’enzima lattasi, nell’insorgenza di eventuali disturbi conseguenti all’ingestione di alimenti contenenti lattosio.
Quando l’intolleranza al lattosio dipende dalla carenza di lattasi, si parla di intolleranza primaria, che è ereditaria (polimorfismo -13910 CC) in quanto trasmessa dai genitori ai figli. Possono esserci però casi (ad esempio morbo di Crohn, celiachia, infiammazioni e infezioni dell’intestino) in cui danni all’intestino danneggiano le cellule che producono la lattasi ed in questo caso si può avere un’intolleranza secondaria, acquisita non tanto per la mancanza dell’attività dell’enzima stesso, ma della sua produzione.  Il test genetico risulta essere non invasivo e veloce, permettendo di distinguere le cause di questa intolleranza e quindi di calibrare stili alimentari adeguati contribuendo così in modo più efficiente alla scomparsa del sintomo.